“La società del XXI secolo non è più la società disciplinare ma è una società della prestazione.” (La Società della Stanchezza, Byung-Chul Han, 2010).
Sono seduto in un bar a Milano.
Le persone vanno e vengono, in un andirivieni concitato, mentalmente già proiettate verso la loro prossima destinazione.
Sono fisicamente presenti, ma la loro mente è altrove, naviga in un mare di colonne di un file Excel, è un ectoplasma che scivola nella proiezione della prossima riunione.
Io no.
Non perché ho raggiunto l’Illuminazione, perché ho dominato una volta per tutte le ruminazioni mentali e concentrato la mia attenzione sul qui-e-ora.
Semplicemente perché in questo momento non ho un lavoro.
Tornando alla citazione iniziale, mi trovo temporaneamente fuori dalla società della prestazione: non sono produttivo.
Il mio stesso valore di individuo appare offuscato: l’identificazione tra lavoro e valore personale è così forte che una persona senza lavoro è per definizione un ingranaggio rotto, una mela marcia, un’anomalia sistemica.
Due persone si conoscono: stretta di mano, enunciazione del proprio nome, e subito dopo: “che cosa fai per lavoro?”.
Niente. Non faccio niente.
La mia dis-occupazione non è casuale, bensì il risultato negativo (temporaneo) di una scelta coraggiosa: a 37 anni ho lasciato un posto di lavoro stabile per seguire le mie passioni, le mie inclinazioni. Ricominciare da zero.
Da un punto di vista puramente razionale: una mossa azzardata.
Invece io dico: una scelta meravigliosa, che rifarei.
“Il fallimento può essere un pessimo insegnante, perché induce le persone intelligenti a pensare che le loro decisioni siano state terribili quando a volte riflettono semplicemente la spietata realtà del rischio.” (La Psicologia dei Soldi, Morgan Housel, 2021).
La differenza tra un vincente e un perdente (due etichette particolarmente fastidiose) a volte è davvero sottile e condizionata non dalla bontà del processo di partenza, bensì da fattori esterni non prevedibili e da un elemento spesso sottovalutato: la casualità.
Siamo molto attratti dalle storie dei self-made man, persone apparentemente straordinarie e visionarie che sembrano aver costruito una fortuna dal nulla.
Così come siamo pronti a puntare il dito verso chi non ce l’ha fatta: a osservare chi va in pezzi, per poi nasconderlo sotto il tappeto.
Ignoriamo che i visionari che mettiamo sul podio sono persone che sbagliano nove volte su dieci, ma la decima volta “fanno la cosa giusta”, come direbbe Spike Lee.
Tornando alla mia apparente non-produttività.
Il paradosso è che la mia inattività mi sta dando energie mentali sopite da tempo, e così mi trovo a disegnare, scrivere, a vedere nuove idee germogliare nella mia testa.
Qualche giorno fa stavo testando l’AI generativa di Google, Gemini, con una richiesta piuttosto semplice: crea l’immagine di un paio di forbici aperte.
Ed ecco materializzarsi di fronte a me una meravigliosa immagine sbagliata: un paio di forbici con tre manici.
È stato un momento rivelatorio: persino le sofisticatissime AI che sostituiranno tutte le professioni al mondo sbagliano.
Mi sono affrettato a disegnare quell’errore, per farlo mio, per non dimenticarlo mai.
Anche le macchine sono soggette alle regole della società di prestazione, forse ne sono la massima espressione: l’essere umano è imperfetto, la macchina non può esserlo, deve essere perfetta.
Per il momento le AI generative sbagliano, ed è una visione rinfrescante.
Ho deciso di dare un seguito a quell’immagine e porre le basi di un progetto artistico dedicato al concetto di errore, dal titolo Seconda Mano.
Seconda Mano, perché l’AI genera l’immagine e io la copio. Imparo dai suoi sbagli.


Seconda Mano, perché gli oggetti di cui ci liberiamo diventano di seconda mano, o per usare un termine coniato dal marketing del tardo capitalismo: pre-loved, già stati amati.
Non so ancora dove mi porterà questa ricerca, ma sono sicuro che sarà piena di magnifici sbagli.
Di immagini usate, sbagliate, scartate, pronte per essere amate davvero.
Evviva l’imperfezione.
Riflessioni interessanti. In quello che dici c'è molta verità, purtroppo una verità sconfortante per chi, come me, "non proprio più giovanissimo", vede il fallimento di tanti ideali.
Però voglio credere che, partendo da considerazioni come le tue, si sia ancora in grado di plasmare un essere più umano, con o senza l'aiuto dell'AI.
Bravo, Alberto!