Sto scrivendo ma nessuno mi ha chiesto di farlo.
Ma sentite almeno le mie ragioni.
Partiamo dall’inizio.
La scrittura presuppone l’esistenza di un pubblico, e la generazione di un valore quantificabile.
Il pubblico desidera informarsi, svagarsi, in ogni caso si compie una transazione: tempo dedicato a leggere in cambio di un arricchimento di sorta.
In senso opposto la scrittura può essere auto-riferita: io, entità scrivente, utilizzo la scrittura come atto curativo, come viatico per i tormenti quotidiani.
I ruoli si specchiano.
Infine scrivere presuppone un senso di autorità, vera o fittizia che sia: salgo su un palco e dispenso parole, perché le mie parole meritano di essere ascoltate.
Bene, ma questa newsletter, provvisoria come il suo titolo “Per Esteso”, che obiettivi si pone? A che pubblico si rivolge?
Nessun obiettivo, nessun pubblico.
Tutti gli obiettivi, tutti i pubblici.
Ma ho alcune cose da dire.
Vorrei per prima cosa distruggere il palco.
Sediamoci per terra, con i piedi ben piantati al suolo.
Il mondo sta accelerando e a volte perdo l’equilibrio.
Sediamoci come pari.
È solo un gioco: in questo caso sono io lo scrittore ma alzi la mano chi vuole dire la sua al prossimo turno.
In secondo luogo: quando ero bambino leggere mi ha cambiato la vita.
I grandi romanzi per l’infanzia sono la mia Itaca, ma continuo a smarrire la rotta, perso tra i marosi dell’età adulta.
Il Conte di Montecristo, I Tre Moschettieri, Don Chisciotte, Sandokan. Tutti i libri di Roald Dahl. La lista potrebbe proseguire all’infinito.
Ecco, scrivere mi avvicina di qualche passo a quel ricordo luminoso.
Sono qui perché credo che uno spazio non produttivo sia molto produttivo.
Il mercato e le sue regole non possono contaminare qualsiasi cosa.
Stare bene con naturalezza, in un fluire costante e ragionato. Questo sì è un valore.
Al diavolo l’audience.
Non voglio scegliere un argomento di cui scrivere.
Sono una vedetta appostata su un faro.
Guardo l’orizzonte e se scorgo un bagliore, un guizzo tra le onde ne parlo.
Ne parlo al vento, o all’orecchio di un viandante che si ferma per una notte al faro.
Ne parlo a modo mio: il linguaggio è una creatura mutaforma, non può essere imbrigliato.
Non ho detto tutto quello che avrei voluto dire, ma forse ho rotto il ghiaccio.
Quello che avevo dentro di me.
Quasi dimenticavo: le idee nella mia testa nascono e muoiono subito dopo, un moto che si trasforma in un lutto continuo.
La carta (di cellulosa o virtuale) è il luogo in cui si compie la verifica.
In cui la catasta dei nostri tentativi maldestri di esistere, di creare perché non possiamo fare a meno di farlo, trovano sollievo.
Si uniscono i puntini e quello che sembrava uno scarabocchio trova il suo compimento.
Questo sì è un diritto che mi arrogo: scrivere per comprendere.
Torno a scrutare il mare.