Ep.9 Caccia al topo
In cui il cacciatore scopre che la trappola era per lui.
Care lettrici e lettori,
siamo arrivati al penultimo episodio della prima stagione di Sagrin.
Il detective ha capito chi lo sta ingannando, ma scoprirà presto che anche i cacciatori possono finire in trappola. E quando i riflettori si accendono su di te, non puoi più scappare nel buio.
Buona lettura!
Caccia al topo
Sagrin chiuse di scatto il taccuino dei casi e lo infilò nella tasca interna dell’uniforme. Le dita gli tremavano leggermente mentre abbottonava il colletto militare. L’adrenalina vinceva sulla stanchezza.
Aveva passato tutta la notte nello studio a rigirare quella parola in testa: figliolo.
Una parola che suo padre non aveva mai pronunciato. Mai.
E questo errore era la crepa nell’inganno, la fessura attraverso cui vedere la verità.
Controllò la pistola d’ordinanza, la infilò nella fondina sotto l’uniforme.
Guardò un’ultima volta i poster alle pareti e annuì con decisione.
Uscì dallo studio di corsa. Le chiavi della Marea tintinnavano nella tasca.
La città si stava svegliando, ma era ancora coperta da un manto umido e gelido.
Sagrin sfrecciava a bordo della Marea attraverso via Fratelli Calandra, il motore che ruggiva come non faceva da mesi grazie a Pellegrino, mentre Torino scivolava ai lati del finestrino come un fondale dipinto alla bene e meglio.
La droga. Artemio aveva accesso a tutto. Incensi, luci, trucchi.
La Duchessa. È in pericolo. Stavolta non arriverò tardi.
Strinse il volante con troppa forza. Le nocche bianche. Sentiva il bastoncino di liquirizia dissolversi tra i denti, ormai ridotto a polpa amara.
Raggiunse Piazza Castello in pochi minuti.
Parcheggiò la Marea in divieto di sosta davanti al Dito di Mussolini e scese di corsa.
Il portiere lo salutò con un cenno del capo e il detective rispose con un gesto secco della mano prima di lanciarsi verso le scale.
L’ascensore era rotto, come sempre. Sagrin salì i gradini due alla volta, imprecando in lingue sconosciute. Arrivò all’attico con il cuore che batteva forte contro le costole.
La porta era socchiusa.
Sagrin estrasse la pistola, spinse la porta con il piede.
L’attico della Duchessa era completamente vuoto.
Non c’erano più gli arazzi pesanti che coprivano le pareti. Non c’erano più le candele, gli incensieri d’ottone, i quadri con cornici dorate. Le pareti nude mostravano i segni chiari dove erano stati appesi specchi e dipinti. Il pavimento era pulito, spazzato con cura.
Era come se nessuno avesse mai vissuto lì.
Sagrin attraversò le stanze con la pistola ancora in pugno, controllando ogni angolo. Cucina: vuota. Camera da letto: armadi spalancati, niente dentro. Bagno: nemmeno uno spazzolino.
Tornò nella sala della seduta spiritica.
Il tavolo rotondo era ancora lì, al centro della stanza. Le sei sedie intorno, disposte con precisione geometrica. Ma tutto il resto era sparito.
Sul tavolo, al centro esatto, c’era un biglietto piegato.
Sagrin si avvicinò, lo prese con cautela. Carta pesante, color crema. Calligrafia elegante in inchiostro nero.
Caro figliolo,
se vuoi rivedere la Duchessa, corri veloce dal tuo migliore amico.
Nei momenti di difficoltà restano solo gli amici veri.
Non deludermi stavolta.
Un padre che ti osserva sempre.
Sagrin lesse. Rilesse. Il primo pensiero fu istintivo, automatico: Pellegrino. L’officina a Santa Rita. Devo andare subito.
Fece due passi verso la porta. La mano era già sulla maniglia quando qualcosa lo fermò. Un’intuizione. Un fastidio. Come un capello in bocca che non riesci a sputare.
Poi si fermò.
No. Troppo facile. Troppo ovvio.
Se corro da Pellegrino, finisco nella trappola. Artemio vuole che io vada lì. Mi sta guidando come un topo in un labirinto.
Tornò indietro, rilesse il biglietto con più attenzione. La calligrafia era perfetta, non naturale. Come se fosse stata copiata meticolosamente da un modello, lettera per lettera.
E poi c’era quella parola. Figliolo. Di nuovo. Artemio non sapeva che era l’errore che lo aveva tradito.
Sagrin piegò il biglietto e lo infilò nella tasca dell’uniforme.
“Se vuoi che vada in un posto,” mormorò a voce bassa, “io andrò nell’altro.”
Si mise a carponi sul pavimento e cominciò a perlustrare l’appartamento stanza per stanza. Metodico. Paziente. L’investigatore puro, quello che aveva imparato a essere prima di diventare Sagrin.
Tornò nella sala della seduta.
Si fermò al centro, chiuse gli occhi, cercò di ricordare quella sera. Le candele. L’incenso. Le ombre che si muovevano sulle pareti. La voce di suo padre che emergeva dal buio.
Riaprì gli occhi e notò qualcosa sul pavimento: un segno leggero, come se qualcosa di pesante fosse stato trascinato. Seguì il segno fino alla parete est.
Toccò la parete. Suonava vuota.
Premette con le mani, spingendo leggermente a destra e sinistra. La parete cedette di qualche centimetro. Era finta. Dietro l’arazzo che era stato rimosso c’era uno spazio nascosto.
Sagrin la spinse completamente da parte.
Dietro c’era una piccola stanza, quasi una cabina di regia.
Cavi elettrici ovunque, alcuni ancora collegati alle prese a muro. Luci di scena smontate, appoggiate contro la parete. Un vecchio proiettore cinematografico per ombre cinesi. Bottiglie vuote con etichette scritte a mano: Incenso di Damasco, Mirra, Sandalo.
E telecamere. Tre telecamere nascoste, piccole e professionali. Una aveva ancora la batteria inserita, la spia rossa spenta.
Sagrin si accovacciò e frugò tra gli oggetti. Trovò una ciotola di ceramica con residui di polvere bianca. La annusò con attenzione. Non era solo incenso. C’era qualcos’altro, qualcosa di chimico e acre che grattava la gola.
Psilocibina. O qualcosa di simile. Ha drogato tutti durante la seduta.
Continuò a cercare. Sotto il monitor spento, infilato come un segnalibro, trovò una lista piegata.
La aprì. Lesse:
MASCHERE & ILLUSIONI
Via Po, 47 - Torino
Trucco scenico professionale
Parrucche uomo, donna
Baffi posticci (set 3 pz)
Colla per protesi
La data era di tre giorni prima della seduta spiritica.
Sagrin sorrise amaramente. “Tutta una mascherata,” disse a voce alta. “Artemio si travestiva. Recitava le parti dei fantasmi.”
Piegò lo scontrino e lo mise in tasca accanto al biglietto.
Il negozio Maschere & Illusioni in via Po era uno di quei posti che Torino tiene nascosti negli angoli come segreti imbarazzanti. Insegna sbiadita, vetrina piena di maschere veneziane polverose e parrucche che sembravano uscite da un teatro dell’ottocento.
Sagrin entrò. Il campanello sopra la porta tintinnò con un suono acuto.
L’interno era esattamente come se lo aspettava: polveroso, pieno di scatole, con l’odore di stoffa vecchia e naftalina che si attaccava ai vestiti. Dietro il bancone c’era un uomo sulla sessantina con il fisico tipico del pitu torinese: pancia ampia che premeva contro il bancone e gambe sottili come stuzzicadenti, quasi un miracolo che lo reggessero. Capelli unti pettinati di lato, occhiali spessi e un’aria da chi conta ogni centesimo tre volte.
“Buongiorno,” disse Sagrin estraendo dalla tasca una foto d’archivio di Artemio che aveva dal caso del furto iniziale. “Questo uomo è stato qui di recente?”
L’uomo prese la foto con dita unte e la guardò per un tempo lunghissimo. Troppo lungo.
“Mah...” disse infine, grattandosi la pancia. “Non saprei. Vede, io ho la memoria corta...”
Sagrin lo fissò. Il negoziante abbassò lo sguardo sulla foto, poi lo rialzò verso Sagrin con un’espressione che diceva chiaramente: e allora?
Sagrin sospirò. Estrasse dalla tasca una banconota da cinquantamila lire e la appoggiò sul bancone accanto alla foto.
Gli occhi del negoziante si illuminarono istantaneamente.
“Ecco, adesso che ci penso meglio...” La banconota sparì nella tasca del grembiule con un movimento fulmineo. “Sì! Il bel giovane! Elegantissimo, sempre in smoking. Come non ricordarlo?”
“Quando è stato qui l’ultima volta?”
“Tre, quattro giorni fa? Veniva spesso nell’ultima settimana. Comprava un po’ di tutto: trucco teatrale professionale, parrucche, colla per protesi. Sembrava molto preparato, sapeva esattamente cosa voleva.”
“Ha detto per cosa?”
Il negoziante si sporse sul bancone, abbassando la voce come se condividesse un segreto prezioso.
“Prove! Mi ha detto che stava preparando uno spettacolo importante. Aveva uno studio sotto la Mole, faceva la spola ogni giorno. Era molto eccitato, quasi febbrile.” Si interruppe, poi aggiunse con tono da venditore: “Mi ha anche invitato alla prima! ‘Vedrà,’ ha detto, ‘sarà uno spettacolo che tutta Torino ricorderà.’”
Sagrin si sporse leggermente sul bancone. “Uno studio sotto la Mole. Ha detto dove esattamente?”
Il negoziante si grattò la testa, pensieroso. O forse stava valutando se l’informazione valesse un’altra banconota.
“Aspetti... sì, via Montebello. O forse via Verdi? Una di quelle viuzze lì intorno. Gli edifici vecchi, sa? Quelli con i sotterranei.”
“Grazie,” disse Sagrin. “È stato molto utile.”
Uscì dal negozio lasciando il campanello a tintinnare alle sue spalle.
La zona sotto la Mole Antonelliana era un dedalo di viuzze strette e portoni scrostati. Edifici ottocenteschi al tracollo, con le facciate color ocra e marrone che la nebbia rendeva ancora più malinconiche.
Sagrin percorse via Montebello controllando portone dopo portone. La maggior parte erano chiusi, con targhe di ottone illeggibili o campanelli che non funzionavano più da decenni.
Finalmente raggiunse via Verdi e al 16 trovò una cancellata in ferro battuto finemente lavorata, con una targa moderna che stonava con il resto del palazzo: Studi Registrazione - Piano -1.
Provò la maniglia. Aperta.
Entrò.
L’androne era buio, con pavimento di pietra consumata e pareti umide. Una scala scendeva verso il sotterraneo, illuminata da luci al neon tremolanti che facevano quel ronzio continuo tipico delle lampade vecchie.
Sagrin scese lentamente, la mano sulla pistola nella fondina.
In fondo al corridoio c’era una porta. Non come le altre del palazzo, questa era moderna, rinforzata, con una serratura elettronica. Sulla porta, una targa luminosa rossa brillava nel buio: STUDIO B - REGISTRAZIONE IN CORSO.
Sagrin si fermò davanti alla porta.
Respirò profondo.
Estrasse la pistola.
Aprì la porta con un colpo secco.
Esplosione di luce.
Sagrin fu accecato. Si coprì gli occhi istintivamente con il braccio libero, la pistola ancora stretta nell’altra mano. Si acquattò per riflesso, pronto a sparare.
Ma prima ancora di vedere, sentì.
Una musichetta. Allegra, fastidiosa, in loop. Quella che mettono nei programmi del pomeriggio su Rai 1.
Poi voci confuse. Movimento. Fruscio di vestiti.
E poi applausi.
Fragorosi. Ritmici. Decine di persone che battevano le mani all’unisono.
Madonna santa. No.
Gli occhi di Sagrin si abituarono lentamente alla luce.
E vide.
Davanti a lui c’era un set televisivo completo. Telecamere professionali su binari, almeno quattro. Gradinate con pubblico, cinquanta, sessanta persone vestite elegantemente, che battevano le mani e sorridevano. Palco centrale con luci colorate, sfondo con un logo brillante: ILLUSIONI ITALIANE - RAI 1.
E al centro del palco, sotto i riflettori:
Artemio.
Vestito da presentatore televisivo. Smoking nero, papillon fucsia, capelli impomatati. Sorriso abbagliante. Microfono archetto professionale.
Accanto a lui, seduta su una sedia semplice:
La Duchessa.
Il vestito porpora della seduta spiritica. Le mani posate sulle ginocchia con troppa simmetria. La schiena dritta in modo innaturale.
Gli occhi aperti. Fissi sul nulla.
Non batteva le palpebre.
Sagrin la osservò per lunghi secondi. Il petto si muoveva, appena. Respirava. Ma era come se non ci fosse più nessuno dietro quegli occhi cerulei.
Vuota. Assente. Presente solo come involucro.
Artemio si rivolse al microfono, voce da showman navigato:
“Che sorpresa, signore e signori, ecco un ospite speciale! Il GRANDE Detective Sagrin! Colui che ha risolto i casi più complessi! Un applauso per lui!”
Il pubblico esplose in applausi ancora più forti. Qualcuno fischiò di entusiasmo.
Sagrin guardò il pubblico. Guardò Artemio. Guardò le telecamere, le luci rosse accese.
Stava registrando. O peggio: era in diretta.
Se sparava, era un pazzo. Se se ne andava, era un codardo.
Era intrappolato.
Artemio fece un gesto elegante verso una sedia vuota accanto alla Duchessa.
“Detective, per favore! Non resti lì sulla porta! Abbiamo una sedia proprio per lei! Questa sera scopriremo insieme la verità su uno dei più grandi inganni di Torino!”
Il pubblico applaudì di nuovo.
Sagrin abbassò lentamente la pistola.
Guardò Artemio negli occhi.
Artemio gli sorrise. Un sorriso di trionfo assoluto.
Poi parlò di nuovo al microfono, la voce calda e perfettamente modulata:
“Detective Sagrin, benvenuto a Illusioni Italiane. Questa sera scopriremo insieme chi è il vero imbroglione: la medium che truffa i ricchi, o il detective che li protegge?” Risate e applausi fragorosi dal pubblico.
Artemio indicò la sedia vuota con un gesto da showman impeccabile.
“Si accomodi, detective. È ora del suo processo.”
Sagrin guardò la pistola nella sua mano. Poi guardò le telecamere con le lucette rosse accese. Registrazione in diretta. Quel figlio di buona donna. Mi ha fregato davvero.
Non c’era via d’uscita.
Lentamente, con un gesto che gli costò più fatica di quanto avrebbe mai ammesso, Sagrin rimise la pistola nella fondina.
E si sedette sulla sedia accanto alla Duchessa.
Il pubblico applaudì ancora più forte, come se avesse appena assistito a un numero di magia riuscito alla perfezione.
Artemio sorrideva. Le telecamere erano puntate. Le luci brillavano.
E Sagrin, per la prima volta in tutta la sua carriera, non aveva la minima idea di come uscire da quella trappola.




Devo trovare il tempo di riprendere a leggere gli episodi!
Complimenti!
Che colpo di scena! E adesso? Il nostro Sagrin mi sembra proprio nei guai...