Un altro passo in questo viaggio stralunato e a tinte fosche. Grazie di esserci.
Sotto tutti gli episodi precedenti, buona lettura!
Il Maggiordomo
Artemio, il maggiordomo, era impegnato a preparare la seduta spiritica che avrebbe avuto luogo quella sera stessa.
La Duchessa e lui erano stati rilasciati su parola grazie all’intervento di Sagrin, che era riuscito a convincere la polizia che si trattava tutto di uno sfortunato malinteso.
Se ci fosse stato qualcuno a osservare il maggiordomo avrebbe assistito a uno spettacolo di rara grazia: volteggiava tra matasse di cavi collegandoli con gesti precisi, azionava le luci di scena dando vita a piccole esplosioni di luce nel buio della sala, disponeva candelabri e incensi con la cura maniacale di chi allestisce un altare.
Era nella sua natura: mettere estrema cura nella trivialità delle cose di tutti i giorni. Una forma di ribellione silenziosa contro la monotonia del vivere.
I suoi antenati avevano costruito un piccolo impero vendendo mangimi per gatti, cavalcando l’onda della solitudine contemporanea.
Quando le famiglie avevano smesso di parlarsi e avevano iniziato a riempire il vuoto con animali domestici, la ditta di famiglia aveva prosperato.
La crescita esponenziale aveva avuto risonanza globale, e l’azienda nell’arco di qualche anno era stata acquistata, mangiata e digerita da un colosso cinese in cambio di una montagna di denaro.
Il padre di Artemio non aveva battuto ciglio: non aveva mai messo piede in azienda neanche una volta, aveva altro per la testa.
Era un uomo consumato dalla vocazione per l’arte. E più la sua arte prendeva forma, più i risparmi sudati dalle generazioni precedenti svanivano come per magia.
Artemio si fermò davanti allo specchio veneziano appeso nella sala principale.
Si aggiustò lo smoking nero, passò una mano sui capelli lucidi tirati all’indietro, si studiò con la severità di chi cerca difetti che non trova.
Era oggettivamente un bell’uomo e portava splendidamente i suoi quarant’anni.
Lo sapeva, e questa consapevolezza era uno dei pochi tesori che la vita gli aveva lasciato.
Suo padre aveva dedicato l’intera esistenza, con l’aiuto della moglie in veste di devota assistente, alla creazione di un corpus di opere notevoli: sculture effimere realizzate interamente con la polvere domestica.
“Arte Effimera: un manifesto programmatico per l’uomo contemporaneo” aveva titolato il Castello di Rivoli annunciando la prima mostra retrospettiva.
La sera prima dell’inaugurazione un guardiano zelante aveva aspirato per errore quelli che credeva cumuli di sporcizia accumulata, distruggendo in un colpo solo il lavoro di una vita.
Artemio ricordava quel giorno. Il padre che vagava per le sale del museo, il viso che si svuotava di ogni colore senza emettere alcun suono. E quel silenzio diventò definitivo, una condanna a morte.
L’anima del padre era stata aspirata insieme alla polvere.
Vagava per la villa di Strada Santa Brigida come un fantasma, guardando i prati all’inglese senza vederli, parlando tra sé e sé di progetti che non avrebbe mai realizzato.
Artemio aveva deciso di dedicarsi anche lui all’arte, in parte per riscattare il fallimento paterno.
Si era buttato nella pittura con ferocia, producendo tele che mescolavano citazioni di Bacon a slanci espressionisti mal digeriti.
La sua prima mostra era durata tre giorni in una galleria di San Salvario che puzzava di muffa e vino bianco scadente.
L’unico articolo uscito lo aveva definito “derivativo, sciatto e privo di senso”.
Artemio si era offeso.
Si era trincerato dietro un sentimento così piccolo e velenoso, e aveva deciso di privare il mondo della sua arte. Aveva accettato un posto da bidello, “operatore scolastico” diceva la busta paga, in una scuola media di Barriera di Milano.
Per anni aveva pulito cessi, svuotato cestini, ascoltato ragazzini che lo chiamavano “signor spazzatura” ridendo tra i corridoi.
Ogni giorno una piccola morte, un pezzetto di lui che si staccava e finiva nell’immondizia insieme ai fazzoletti usati e agli involucri delle merendine.
Fino all’incontro con la Duchessa, a un evento di beneficenza organizzato da una delle tante associazioni culturali torinesi che servivano principalmente a far sentire meno inutili i ricchi annoiati.
Beatrice cercava qualcuno che sapesse maneggiare luci e scenografie per le sue sedute spiritiche.
Artemio aveva visto un’opportunità: quella donna frequentava persone facoltose, collezionisti d’arte, critici, galleristi. Gente che contava.
Si era messo al suo servizio con dedizione totale.
Preparava le sedute con la meticolosità di un regista, orchestrava effetti speciali che rendevano vere le menzogne della Duchessa.
Dio quanto odiava quella donna fasulla.
La Duchessa lo pagava poco, pochissimo. Ma lo presentava sempre come “il mio fidato Artemio, un artista di raro talento”. Una cortesia melensa e calcolata.
La sua danza dei cavi fu interrotta dall’ingresso della Duchessa.
“Artemio caro, dici che questo vestito svela troppo? Non vorrei che l’attenzione dei nostri ospiti fosse distratta dalla mia presenza” civettò.
“Duchessa, il vestito le sta così divinamente che lei stessa sembra una visione mistica”, disse Artemio con la bocca contorta in una smorfia.
La Duchessa sorrise baldanzosa e accennò un passo di valzer uscendo dalla sala.
Artemio aspettò che i tacchi della donna smettessero di risuonare nel corridoio.
Poi si versò un dito di cognac da una caraffa di cristallo di Boemia che la Duchessa teneva per “gli ospiti importanti”.
Lo bevve in un sorso, asciugandosi le labbra con il dorso della mano. Il liquido gli bruciò la gola, e per un attimo si sentì vivo.
Artemio tornò a sistemare i cavi.
Le sue mani, mani da artista, si ripeteva sempre, lavoravano con precisione meccanica.
Quella sera ci sarebbero stati ospiti importanti: un antiquario di corso Vittorio, una gallerista di via Lagrange, magari figure politiche di rilievo.
Forse avrebbe trovato l’occasione per avvicinarli e farsi notare al termine della seduta.
Si specchiò un’ultima volta nello specchio veneziano. Aggiustò il papillon, tirò le maniche della camicia bianca inamidata.
Sì, era pronto. Bellissimo e perfettamente invisibile, come sempre.
Fuori, dalla finestra dell’attico, Torino si stendeva grigia e indifferente.
Le luci del Dito di Mussolini si accendevano una a una, punteggiando la sera che scendeva su Piazza Castello.
Dall’incensiere saliva una colonna di fumo denso che si attorcigliava verso il soffitto affrescato. Artemio inspirò: sandalo, mirra, e qualcos’altro di indistinguibile. Un odore antico, quasi farmaceutico.
Artemio accese l’ultimo candelabro e si mise in posizione accanto alla porta, pronto ad accogliere gli ospiti con l’inchino perfetto che aveva provato mille volte davanti allo specchio.
Un maggiordomo impeccabile al servizio di una medium truffaldina, in una città che aveva smesso di credere in tutto tranne che nella propria malinconia.
Il campanello suonò. Il primo ospite era arrivato.
Artemio aprì la porta con un inchino perfetto, il sorriso impeccabile stampato sul volto.
Ma quella sera, senza che nessuno potesse prevederlo, i morti avrebbero risposto davvero.




Bellissima l'idea delle opere d'arte fatte di polvere! E il Castello di Rivoli è la sede più adeguata... anche se qualcuno potrebbe trovare il tutto un po' irriverente 🤣
La trovata della polvere come opera d'arte la trovo molto contemporanea! Ahahahah