Detective Sagrin sotto i cieli d'uva fragola
In cui il Detective dimostra la superiorità morale del buon appetito.
Oggi c’è una novità: vi presento un personaggio.
Detective Sagrin, grottesco e vanitoso ma incredibilmente bravo nel suo lavoro. Questa è la prima di una serie di storie da cento parole.
Introduzione
Il detective privato Sagrin fece scricchiolare i gradini della pasticceria Storie Golose mentre usciva con due bignè incartati nella carta cerata.
Si aggiustò il riporto lucido con un cenno del capo e, specchiandosi nel vetro della porta, arricciò i baffi con gesto solenne.
Un gruppo di ragazzi rise a bassa voce: «Sagrin…» mormorò uno, e la parola (che in piemontese significa tristezza, sgomento) gli rimbalzò addosso come sempre, pungendolo un istante prima di svanire.
Così recitava l’articolo in prima pagina de La Stampa: “Sagrin, l’eroe impavido che protegge Torino dal crimine.”
Il detective non poteva contenere il compiacimento.
Sagrin in realtà si chiamava Manlio, ma nessuno più lo ricordava.
Riteneva che la statura morale di un uomo fosse proporzionale al suo girovita, e quindi profondeva molto impegno per incrementare la sua stazza, già mastodontica, indugiando su dolci e vino senza controllo.
La sua più grande passione era prendersi cura del proprio aspetto: si impiastricciava i capelli diradati con unguenti volumizzanti, disponeva il riporto sul cranio pressoché calvo, arricciava i baffi alla D’Artagnan e non perdeva occasione per specchiarsi, trovandosi assolutamente irresistibile.
Amava indossare una uniforme militare trovata al mercato Balon, che lo faceva sentire un condottiero.
A smorzare l’austerità della divisa contribuiva la biancheria intima, rigorosamente in seta: morbida, confortevole, e porta d’accesso a torbide fantasie.
Celava meticolosamente una passione morbosa per il sesso, mai agito ma sempre immaginato, e non perdeva occasione per dirottare ogni conversazione professionale verso una dimensione erotica.
Amava ripetere durante gli interrogatori: «Signora, se continua a svestirmi con gli occhi mi farà prendere un malanno».
Talvolta lo specchio, suo confidente e porto sicuro, gli appariva nemico.
Gli occhi e la bocca scendevano vertiginosamente verso il basso, dandogli l’aspetto di un pagliaccio triste. E nonostante avesse all’incirca cinquant’anni ne dimostrava almeno una decina in più.
Ma l’incertezza svaniva presto dal suo viso giocondo.
Nonostante queste ridicole moine, Sagrin era il più grande talento investigativo che Torino avesse mai avuto.
La sua metodologia di lavoro era rozza, ignara di ogni tecnicismo, eppure il suo fiuto lo guidava inevitabilmente verso la risoluzione di enigmi intricatissimi.
I criminali più spietati tremavano solo a sentire il suo nome.
Perché, ridicolo o no, Sagrin chiudeva sempre i suoi casi.
Detective Sagrin sotto i cieli d’uva fragola
Sagrin aveva risolto il caso della Duchessa per puro disprezzo: quella vecchia vanitosa e quel fagiano del maggiordomo avevano inscenato il furto per finire sui giornali.
E ci erano riusciti, ma per il motivo sbagliato. Truffa aggravata.
Al carcere delle Vallette si sarebbero trovati bene.
Ora Sagrin sedeva all’Osteria Antiche Sere, sotto il pergolato d’uva fragola.
Aveva mangiato bene, forse troppo.
Sorrise ricordando il suo motto: “diffidare delle persone magre, non sanno godersi la vita”.
Ridacchiò fumando a grandi volute, osservando le curve della cameriera.
Pagando, le disse: “continui così signorina, i lavori umili lastricano la strada verso il Paradiso.”